IL PRETORE
   Con  d.c.g.  emesso  il 20 febbraio 1997, il p.m. presso la pretura
 circondariale di Genova disponeva la    citazione  a  giudizio  degli
 odierni  imputati,  per  rispondere  dei  reati  di cui agli artt. 81
 c.p.v., 110 c.p., 17, in  relazione agli artt. 1, 4, 5, 6,  legge  n.
 107/1990  e  81  c.p.v. c.p. 17, legge n. 107/1990, in relazione agli
 artt. 91, d.P.R. n. 1256/1971, 31 e 34, d.m. 27 dicembre 1990.
   All'udienza del 5 novembre 1997, nella fase degli atti preliminari,
 le difese degli interessati proponevano  varie  questioni,  attinenti
 sia al d.c.g. (in relazione alla formulazione della imputazione), sia
 alla  normativa  in  applicazione  (in  relazione  a  vari profili di
 coerenza col dettato costituzionale).
   Il p.m. chiedeva la reiezione di tutte le eccezioni.
   Il  pretore  decideva  in  merito  alle  questioni  proposte,   con
 ordinanza  5 novembre 1997, di reiezione della eccezione di nullita',
 di accoglimento della eccezione di legittimita' costituzionale.
   Con successiva ordinanza del 9 luglio 1998, la Corte costituzionale
 dichiarava la inammissibilita' della  questione  proposta,  rilevando
 carenza di motivazione in punto "rilevanza".
   Il procedimento veniva ripreso con udienza fissata alla data del 29
 gennaio 1999.
   Nella  fase  degli  atti preliminari, p.m. e difesa, concordemente,
 chiedevano che la Corte  costituzionale  fosse  nuovamente  investita
 della   questione  precedentemente  proposta,  negli  stessi  termini
 evidenziati dal giudicante, salve le opportune precisazioni in  punto
 rilevanza, attesa l'importanza della questione e la necessita' di una
 pronuncia nel merito.
   Si  osservava,  in particolar modo, come, a fronte di un settore di
 estrema  rilevanza  come  quello  in  esame,   non   pochi   problemi
 presentasse  la  normativa  in  applicazione,  e come sulla soluzione
 delle varie questioni interpretative incidesse, negativamente,  anche
 la evidente carenza di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
   Si  sottolineava,  inoltre,  la  esistenza  di  altri  procedimenti
 analoghi in oggi pendenti presso la procura circondariale di  Genova,
 quattro dei quali gia' pervenuti alla fase del dibattimento.
   Sulla   base   di   tali  elementi,  complessivamente  considerati,
 apparendo particolarmente opportuna una pronuncia  nel  merito  delle
 questioni  proposte,  il  pretore decideva di accogliere la richiesta
 delle parti.
   E', dunque, nuovamente in  esame  il  problema  della  legittimita'
 costituzionale  della  legge n. 107/1990 - norma di riferimento della
 contestazione  -  valutata  sotto  i  tre   diversi   aspetti   della
 determinatezza della fattispecie (art. 25, secondo comma, Cost.), del
 rispetto  della  riserva  di  legge  (art. 25, secondo comma, Cost.),
 della razionalita' complessiva del  sistema  sanzionatorio  (art.  3,
 primo comma; art 27, terzo comma; art. 97, Cost.).
   Si osserva quanto segue:
     a) in punto "rilevanza".
   Essendo  la  questione in esame insorta nell'ambito di procedimento
 penale e, di piu', nella fase degli atti  preliminari,  la  rilevanza
 non  puo'  che  essere  valutata  avuto  riguardo  alla portata delle
 contestazioni,  formalizzate  nel  capo  di  imputazione  (per  certi
 aspetti  scarno,  per quanto attiene alle modalita' di estrisecazione
 della  condotta,  comunque  sufficientemente  determinato,  anche  in
 considerazione  degli  elementi  deducibili  dal  pv  di sequestro in
 atti).
   Agli odierni imputati  e'  contestato,  anzitutto,  (capo  a  della
 rubrica)  il  reato  previsto  dagli  artt.  81  c.p.v.,  110, 17, in
 relazione agli artt. 1, 4, 5, 6, legge n.  107/1990,  perche',  nelle
 rispettive  qualita'  di  responsabili  e  operatori di una struttura
 sanitaria privata, "...  con piu' atti esecutivi del medesimo disegno
 criminoso, prelevavano e distribuivano  sangue  umano  in  violazione
 delle   norme   di   legge,   in   particolare  attivando  un  centro
 autotrasfusionale  presso  struttura  non  prevista  dalla  legge   e
 comunque non convenzionata con le strutture trasfusionali a tal fine.
 In Genova, dal 1 gennaio al 5 giugno 1995".
   Ad  uno  solo  degli  imputati  e'  contestato,  poi, (capo b della
 rubrica) il reato previsto dagli artt. 81 cpv, cp, 17, legge 107/1990
 in relazione agli artt.  91,  d.P.R.  1256/1971,  31  e  34  d.m.  27
 dicembre 1990, nella sua qualita' di direttore sanitario della stessa
 struttura privata, "... perche', con piu' atti esecutivi del medesimo
 disegno  criminoso,  non restituiva nel piu' breve tempo possibile al
 servizio trasfusionale le unita'  di  sangue  e/o  emocomponente  non
 utilizzate,  provenienti  sia  da autotrasfusioni che da donazioni di
 sangue omologo, provvedendo autonomamente al loro smaltimento  e  non
 predisponeva  un  sistema  di registrazione ed archiviazione dei dati
 inerenti alle dette unita' che consentisse di ricostruirne l'iter dal
 momento del prelievo fino  alla  sua  destinazione  finale,  rendendo
 cosi' impossibile determinare la sorte delle singole sacche di sangue
 assegnate   dal   c.t.   od   oggetto  di  autoemodonazione,  nonche'
 l'identificazione degli operatori. In Genova, dal 1  gennaio    al  5
 giugno 1996".
   Il  fatto  descritto  al  capo  a)  della  rubrica,  come meglio si
 precisera' in seguito,  e'  compiutamente  disciplinato  dalla  legge
 107/1990,  laddove  (art.  1  e segg.) rimette in via esclusiva, alle
 strutture  sanitarie  pubbliche,  tutta   l'attivita'   trasfusionale
 (raccolta, conservazione, distribuzione del sangue o di emocomponenti
 - nella quale e' pacificamente ricompresa la cd "autodonazione" -), e
 dalla stessa legge (art. 17) sanzionato.
   Il  fatto descritto al capo b) della rubrica (distruzione di sangue
 non reinfuso e omessa registrazione dei dati relativi,  pertinente  a
 poche  sacche di prodotto, specificamente individuate, come si evince
 dagli atti utilizzabili ad integrazione  del  capo  di  imputazione),
 come meglio si precisera' in seguito, e' disciplinato sia dalla legge
 n.  107/1990,  sia  dai  decreti  integrativi  richiamati nel capo di
 imputazione (d.P.R. n. 1256/1971, d.m. 27  dicembre  1990),  e  dalla
 stessa legge (art. 17) sanzionato.
   In  questo secondo caso, viene pacificamente in rilievo una ipotesi
 di "norma penale in bianco", analogamente a quanto avviene  in  altri
 settori  dell'ordinamento,  caratterizzati da disciplina estremamente
 tecnica,  che  non  puo'  essere  compiutamente  rimessa  alla  fonte
 primaria (basti solo pensare alla materia degli alimenti).
   Che  si  tratti  di norma penale in bianco, e' circostanza pacifica
 non soltanto per ragioni  sostanziali  (il  contenuto  tecnico  della
 disciplina),  ma  anche  e  soprattutto  per  ragioni  logico-formali
 (l'art.  17, legge 107/1990, infatti, sanziona non i  fatti  compiuti
 in violazione della presente legge, ma quelli commessi "in violazione
 delle  norme di legge", utilizzando quest'ultima espressione in senso
 evidentemente atecnico; gli artt. 1 e   segg., legge  107/1990  fanno
 espresso  rinvio  a  successivi  provvedimenti  normativi, il d.m. 27
 dicembre 1990 - fonte integrativa dell'imputazione di cui al capo  b)
 -  e'  stato  espressamente emanato per dare attuazione alla legge in
 esame).
   Non pare quindi dubitabile che le condotte  descritte  al  capo  b)
 della  rubrica,  in  quanto  violazione di specifici obblighi imposti
 dall'art. 31  del  27  dicembre  1990,  rientrino  nella  fattispecie
 incriminatrice  di  cui  all'art.  17,  legge  107/1990, ne' che tale
 integrazione appaia viziata da "eccesso di potere", trovando  anzi  i
 suoi   presupposti   e  i  suoi  limiti  nei  principi  articolati  e
 puntualmente espressi da una legge dichiaratamente emanata allo scopo
 di "garantire il buon uso del sangue".
   La questione e', dunque, rilevante, poiche' alla prova dei  diversi
 fatti    in   contestazione   dovrebbe   necessariamente   conseguire
 l'applicazione  delle  sanzioni   contemplate   dall'art.   17,   col
 particolare  meccanismo  di  cui  si  dira' in tema di "non manifesta
 infondatezza", onde il  presente  procedimento  non  potrebbe  essere
 definito   indipendentemente   dalla   risoluzione   delle  questioni
 prospettate.
     b) in punto "non manifesta infondatezza".
   L'esame del merito delle questioni presuppone alcune considerazioni
 preliminari circa la realta'  di  fondo  sottesa  alla  normativa  in
 esame.
   L'utilizzo del sangue e degli emoderivati nella pratica terapeutica
 ha  acquisito,  negli  ultimi  decenni, una valenza di tutto rilievo,
 assolutamente imprescindibile.    A  fianco  dell'impiego  "di  prima
 urgenza",  infatti,  sempre  crescente  a fronte del moltiplicarsi di
 eventi  traumatici  (basti  solo  pensare  all'aumento  costante   di
 incidenti  stradali e infortuni sul lavoro), si e' andato affermando,
 grazie ai progressi della medicina, un utilizzo accessorio  e  mirato
 nei  vari  settori della pratica operatoria (dall'autodonazione anche
 in presenza di interventi ordinari, all'auto/eterodonazione nel campo
 del trapianto di organi, fino ad arrivare al settore della cura delle
 malattie ematiche, leucemia e linfomi in primo luogo,  caratterizzato
 da  forme  di  impiego  sempre piu' significative e sofisticate degli
 emocomponenti - dalle piastrine irradiate per  la  prevenzione  della
 GVHD,   fino  all'utilizzo  delle  cellule  staminali  in  luogo  del
 trapianto, sia autologo che allogenico, del midollo -).  A fronte  di
 cio',  si  e' dovuto affrontare il problema (peraltro, comune a molti
 altri Paesi)  della  insufficiente  raccolta  di  sangue  (mediamente
 mancano  600.000  unita'  rispetto  al  fabbisogno teorico per anno),
 nonche' della  assoluta  incongrua  distribuzione  dello  stesso  sul
 territorio  dello Stato (con particolare penalizzazione delle regioni
 meridionali).  Tutto cio' ha determinato una  inevitabile  dipendenza
 dall'estero  (per  i  plasmaderivati,  oltre  il  70%  del fabbisogno
 nazionale), con  oneri  notevoli  a  carico  del  servizio  sanitario
 pubblico,  ed  ha  favorito  le piu' varie attivita' speculative, con
 evidenti e spesso tragici riflessi sulla salute della collettivita'.
   In questo quadro, dopo anni di  "dibattito  politico",  sulla  base
 della delega operata dalla legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio
 sanitario  nazionale,  e  in  recepimento della direttiva comunitaria
 381/1989, e' stata finalmente emanata la  legge  4  maggio  1990,  n.
 107,  recante  "Disciplina per le attivita' trasfusionali relative al
 sangue  umano  ed  ai  suoi  componenti  e  per  la   produzione   di
 plasmaderivati",   che   ha   espressamente   abrogato  la  normativa
 previgente.   Obbiettivi fondamentali della legge  n.  107/1990  sono
 idoneita'  ed  autosufficienza  nella  raccolta  del  sangue, congrua
 distribuzione sul territorio nazionale del relativo prodotto, massima
 tutela  della  salute  pubblica.    I  principi  che  presiedono   al
 perseguimento   dei   suddetti   obbiettivi  ruotano  attorno  a  tre
 particolari direttrici: anzitutto, il superamento del cd "mercato del
 sangue", attraverso la fondamentale affermazione per cui  "il  sangue
 umano  ed i suoi derivati non sono fonte di profitto" - art. 1, comma
 4, parte 1 - ed i successivi corollari (la raccolta e' fondata  sulla
 donazione  volontaria,  periodica e gratuita - ex art. 1, comma 2; la
 stessa distribuzione al ricevente e'  gratuita  ed  esclude  addebiti
 accessori  e  oneri  fiscali  -  ex  art.  1,  comma 4; tutti i costi
 relativi  al  processo  di  "gestione"   del   sangue   -   raccolta,
 frazionamento,  conservazione  e  distribuzione  -  sono a carico del
 Fondo sanitario nazionale, ex art. 1, comma 5).
   In  secondo  luogo,  la  riserva  alla  pubblica   amministrazione,
 attraverso   tutte  le  sue  articolazioni  strutturali,  centrali  e
 periferiche, di tutto il "settore trasfusionale" (ex art. 4 e segg.),
 sia nel suo aspetto tecnico-operativo, sia  in  quello  promozionale,
 sia  in  quello  di  coordinamento.    In  terzo  luogo,  la rigorosa
 documentazione di tutto l'iter inerente la singola unita' di sangue o
 emocomponente, dal momento della raccolta a quello della destinazione
 finale  - utilizzo o smaltimento -, attraverso i registri regionali e
 quello nazionale (ex art. 1, comma 7).  Emerge, dunque, un  complesso
 normativo  estremamente  vario  ma,  al  contempo, omogeneo nella sua
 strumentalita' all'obbiettivo fondamentale di ottimizzare raccolta  e
 distribuzione  del  sangue  e  suoi  derivati, sottratti all'area del
 mercato e alla logica del profitto,  perseguendo  la  massima  tutela
 possibile  della  salute  pubblica, attraverso l'intervento esclusivo
 delle strutture pubbliche, e  l'adozione  di  procedure  dettagliate,
 vincolanti  e,  quindi,  trasparenti.    E'  in  questo quadro che va
 valutata la fattispecie penale di cui all'art. 17, che  punisce,  per
 la  parte  che  qui interessa, "Chiunque preleva, procura, raccoglie,
 consegna o distribuisce sangue umano, o produce e mette in  commercio
 derivati  del  sangue  umano in violazione delle norme di legge o per
 fini di lucro".   Dal punto di vista strutturale,  si  tratta  di  un
 reato  di pura condotta, di pericolo presunto, a dolo generico quando
 il fatto si traduce  nel  mancato  rispetto  delle  prescrizioni  che
 disciplinano  l'iter procedimentale relativo al "bene sangue"; a dolo
 specifico,  quando,  pur  in  presenza  del  formale  rispetto  della
 normativa in materia,  l'agente abbia operato "per fini di lucro" (di
 per se', peraltro, gia' espressamente vietati dalla legge).
   La  pena  e' congiunta, (reclusione da uno a tre anni e multa da L.
 400.000 a L. 20.000.000).
   Per l'esercente  la  professione  sanitaria  e'  prevista  la  pena
 accessoria  dell'interdizione  dalla  professione  per un periodo non
 inferiore a due anni. Indubbiamente  la  fattispecie  in  esame  pone
 alcuni   problemi   interpretativi,   sottolineati  dalle  difese  e,
 comunque, apprezzabili anche d'ufficio, attinenti alla determinatezza
 del precetto  penale,  al  rispetto  della  riserva  di  legge,  alla
 razionalita' del sistema sanzionatorio.
   Per  quanto concerne l'imputazione di cui al capo a) della rubrica,
 non sembra possano porsi problemi di determinatezza della fattispecie
 incriminatrice, tali da fondare il dubbio che  possa  essere  rimesso
 all'interprete  "l'apprezzamento  del  disvalore  di un illecito" (ex
 Corte costituzionale, sent. 16 maggio 1989, n. 247), se cioe'  la  cd
 "autotrasfusione"  rientri o meno nella sfera di esclusiva competenza
 pubblica. La pratica della cd "autotrasfusione"  (in  senso  tecnico,
 prelievo   di   sangue   prima  di  un  dato  intervento,  sangue  da
 reinfondersi, all'occorrenza, al paziente interessato), non puo'  che
 essere  considerata  come  un  aspetto  dell'attivita'  di "raccolta,
 frazionamento,  conservazione  e  distribuzione",  sia  per  evidenti
 ragioni  di ordine logico, sia per la chiarezza del dettato normativo
 in materia. Sotto il primo  profilo,  anzitutto,  non  vi  e'  alcuna
 differenza  (quanto  a  modalita'  operative,  esigenze  di  cautela,
 rischi, possibili speculazioni) col prodotto della donazione di terzi
 (il sangue prelevato al  paziente  che  necessiti  di  autodonazione,
 prima   di   essere   reinfuso   al   paziente  stesso,  deve  essere
 opportunamente conservato, puo' necessitare di idoneo purging e cosi'
 via; lo stesso sangue, ancorche' sano, ove non utilizzato,  deve  ben
 essere opportunamente "smaltito").  Sotto il secondo profilo, infine,
 e'  l'art.  1,  comma  1,  della  legge  che individua l'attivita' di
 "raccolta, frazionamento, conservazione e  distribuzione",  attivita'
 qualificata  come "parte integrante del Servizio sanitario nazionale"
 (art. 1, comma 2) e, in quanto tale, rimessa, in via esclusiva,  alle
 strutture  pubbliche,  nelle  loro  varie articolazioni.   Per quanto
 concerne,  specificamente,  l'autotrasfusione,  la  promozione  e  la
 pratica  relativa  e'  rimessa  ai  servizi  di  immunoematologia   e
 trasfusione  e ai centri trasfusionali (ex art. 5, comma 2, lett.  e)
 art. 6, comma 2), che hanno inoltre il compito, fondamentale  e  piu'
 generale,  di  promuovere e coordinare tutte le iniziative necessarie
 in  merito  (  ex  art.  16),  in  quanto  espressamente  deputate  a
 garantire,  in  ultima  analisi, "il buon uso del sangue" (ex art. 5,
 comma 2, lett. f).
   E' dunque evidente, sulla base  della  interpretazione  sistematica
 delle  disposizioni,  chiare  e  sufficientemente  determinate, della
 legge. 107/1990, la riserva di  competenza  pubblica  in  materia  di
 autotrasfusione  globalmente intesa, talche' costituisce reato creare
 strutture o compiere attivita' correlative in  ambienti  a  cio'  non
 legittimati.
   Ove  cio' avvenga, opera la sanzione penale, seguita dalla chiusura
 della eventuale  struttura  non  autorizzata  a  cura  dell'autorita'
 sanitaria locale (ex art. 17, comma 2).
   Tale  scelta del legislatore, della cui ratio, evidente, si e' gia'
 detto in precedenza, e' stata, tra l'altro ulteriormente ribadita  in
 successivi  provvedimenti  normativi,  quali il d.P.R. 7 aprile 1994,
 relativo all'approvazione del "piano  per  la  razionalizzazione  del
 sistema  trasfusionale  per  il  triennio  1994-1996"  e  il  d.m.  1
 settembre 1995, recante "disciplina dei  rapporti  tra  le  strutture
 pubbliche  provviste  di  servizi  trasfusionali e quelle pubbliche e
 private, accreditate e non accreditate, dotate di frigoemoteche".
   La questione proposta, pertanto, appare manifestamente infondata.
   Per quanto concerne il secondo profilo indicato  -  rispetto  della
 riserva  di  legge, in relazione all'imputazione di cui al capo b) -,
 e' certamente vero che la disciplina  analitica  del  complesso  iter
 attinente  alla  singola  unita'  di  prodotto  (dalla  raccolta alla
 destinazione finale) non e' contenuta integralmente nell'ambito della
 legge 107/1990, ma in una serie successiva di  decreti  ministeriali,
 primo  fra  tutti  il  fondamentale  d.m.  27  dicembre 1990, recante
 "caratteristiche  e  modalita'  per  la  donazione  del   sangue   ed
 emoderivati".
   Da  cio'  consegue, necessariamente, il problema del rispetto della
 riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2, Cost., come in tutti  i
 casi  di  normazione in settori estremamente specifici e suscettibili
 di  continuo  aggiornamento,  in  cui  le  disposizioni  tecniche   e
 procedimentali  non  possono  che  essere rimesse alla fonte di grado
 inferiore, pena, come sostenuto da autorevole dottrina, un  eccessivo
 irrigidimento  delle fonti stesse e una rinuncia, di fatto, alla piu'
 adeguata tutela penale.  Il problema e', dunque, valutare se la legge
 n. 107/1990, nel rimettere ai successivi decreti  importanti  aspetti
 della  disciplina  della  materia,  abbia  assolto  alle fondamentali
 condizioni frutto della autorevole e ormai  consolidata  elaborazione
 della  Corte  costituzionale (a partire dalla sent. 23 marzo 1966, n.
 26).   Secondo la Corte, il  principio  della  riserva  di  legge  in
 materia  penale  si intende rispettato tutte le volte in cui la fonte
 primaria abbia indicato, con sufficiente chiarezza, i presupposti,  i
 caratteri  ed il contenuto del precetto penale, residuando alla fonte
 secondaria una funzione  integrativa  di  aspetti  tecnici.    Questa
 condizione  risulta  certamente assolta dalla normativa in esame, dal
 complesso  delle  disposizioni   in   cui   si   articola,   valutate
 sistematicamente,   sia  quelle  volte  ad  affermare,  solennemente,
 principi ispiratori della riforma (es. art. 1, comma 4,  per  cui  il
 sangue  umano  e  i  suoi  derivati  non sono fonte di profitto), sia
 quelle di carattere piu' squisitamente  tecnico  (es.  art.  3  sulla
 donazione,  4 e segg. sulle strutture e relative attribuzioni, ecc.).
 Come si e'  detto  in  precedenza,  emerge  chiaramente  dal  dettato
 normativo,  la  finalita'  perseguita dal legislatore, cioe' il "buon
 uso  del   sangue",   l'ottimizzazione   della   raccolta   e   della
 distribuzione  sul  territorio  dello Stato, in condizioni di massima
 sicurezza per la salute della collettivita' e, quindi, fuori da  ogni
 logica  di  mercato,  finalita'  cui  e' assolutamente strumentale la
 riserva  di  competenza  alle  strutture   pubbliche   tassativamente
 indicate,  con individuazione specifica delle rispettive attribuzioni
 (art. 4 e segg.),  nonche'  la  massima  trasparenza  -  da  attuarsi
 mediante  disposizioni  di  dettaglio,  analitiche  e  vincolanti, su
 modalita' operative e relativa documentazione - e, quindi, il massimo
 controllo, nelle procedure di "gestione del sangue e suoi  derivati",
 dalla raccolta della singola unita' di prodotto alla sua destinazione
 finale  (art.  1, comma 7, sui registri, art. 3 sulla donazione, art.
 10 sugli emoderivati, art. 12  sulla  commissione  nazionale  per  il
 servizio trasfusionale, art. 15 sull'importazione ed esportazione del
 "prodotto").
   In  questo  quadro,  il  d.m.  27  dicembre  1990 ha la funzione di
 attuare i suddetti principi, attraverso la mera disciplina di aspetti
 strettamente tecnici (locali, modalita'  di  prelievo,  modalita'  di
 conservazione  del prodotto, richieste e modi di distribuzione, ecc.)
 che, certo, il legislatore  non  potrebbe,  in  sede  di  "normazione
 sintetica",  considerare,  come  del  resto  avviene in altri settori
 analoghi (basti solo pensare alla  normativa  in  materia  di  igiene
 alimentare).
   Non  vi  e',  dunque,  alcuna  violazione  della  riserva di legge,
 essendo il  precetto  penale  integralmente  determinato  nell'ambito
 dell'art.     17,  secondo  il  quale  costituisce  reato  prelevare,
 procurare, raccogliere, consegnare  o  distribuire  sangue  umano,  o
 produrre  e metterne in commercio derivati, per finalita' di lucro o,
 se anche in assenza del fine del profitto, in violazione delle  norme
 che disciplinano riserva di competenza, modalita' operative, rigorosa
 documentazione,  di  tutte le operazioni correlative.  E si comprende
 la scelta del legislatore: in un settore cosi' delicato  e  fonte  di
 rischi  reali  come  quello  in  esame,  e'  talmente imprescindibile
 l'esigenza   di   tutela   della   salute,    fondamentale    diritto
 dell'individuo  ma  anche  interesse  della  collettivita'  (art.  32
 Cost.),   ed   e'   talmente   pericoloso,   oltre   che    immorale,
 strumentalmente alla prima, che un bene primario come il sangue possa
 sottostare  a  logiche  di mercato, da rendersi necessaria una tutela
 diffusa, poiche' ciascun momento del complesso  delle  operazioni  di
 raccolta, conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione del
 sangue e dei suoi derivati, ha eguale valenza ed eguale "dignita'" in
 relazione  alle  finalita'  perseguite,  onde massimo e costante deve
 essere il rispetto delle  modalita'  operative  e  di  certificazione
 tassativamente  previste.    Anche  la  seconda  questione, pertanto,
 appare manifestamente infondata.  L'ultima delle questioni  in  esame
 attiene al meccanismo sanzionatorio previsto dalla legge, nell'ambito
 della  quale viene censurata l'irrazionalita' complessiva della pena,
 in  quanto troppo elevata nel minimo e, quindi, tra l'altro, idonea a
 produrre situazioni di ingiustificata disparita',  omogeneizzando  il
 trattamento sanzionatorio di condotte di ben diverso rilievo (art. 3,
 Cost.), oltre che lesiva del fondamenlale principio rieducativo (art.
 27,  Cost.),  nonche'  del  canone  di  buon andamento dell'attivita'
 amministrativa complessivamente intesa (art.  97,  Cost.),  di  fatto
 precludendo   all'imputato  l'accesso  a  riti  alternativi,  con  la
 conseguente celebrazione di lunghi e costosi dibattimenti.
   Tale ultimo problema merita  piu'  ampie  considerazioni,  per  gli
 inevitabili  riflessi  che la astratta tipizzazione della pena, nella
 sua  natura  ed  entita',  determina  in  riferimento  alle   "scelte
 politiche   di   fondo"   opere  dal  legislatore,  alla  luce  dello
 "sbarramento" posto dall'art. 28, legge 11 marzo 1953, n. 87.
   Come e' noto, la giurisprudenza costituzionale in materia e' sempre
 stata improntata a doverosa cautela, essendo espressione  della  piu'
 ampia  discrezionalita'  parlamentare la scelta circa i comportamenti
 che, in un determinato  contesto  storico-sociale,  possono  apparire
 meritevoli  di  sanzione  penale,  di  un  determinato  tipo,  di una
 determinata entita'.
   In questo quadro, le scelte sanzionatorie operate  dal  legislatore
 sono  state  oggetto  di  sindacato  solo  in  quanto  manifestamente
 irrazionali, muovendosi inizialmente da un  parametro  logico-formale
 desunto  dall'art.    3, comma 1, Cost., che non consente trattamenti
 analoghi per casi differenziati, ne' trattamenti differenti per  casi
 simili.
   E    tale   cautela   ha   caratterizzato   anche   le   evoluzioni
 giurisprudenziali   successive,    quando    il    controllo    sulla
 discrezionalita'  del  legislatore ha mostrato aspetti piu' incisivi,
 piu' "sostanziali", col riferimento alla "necessaria proporzione" tra
 fatto e pena (cfr., tra le altre, sentt. n. 103/1982 e n.  409/1989),
 alla  necessaria  valutazione  bilanciata  degli  interessi in gioco,
 secondo la "gerarchia dei valori" espressi dalla  Costituzione  (cfr.
 ad  es.,  la  sent.  n.  299/1992),  al "fine rieducativo" della pena
 (cfr., ad es., sentt. n. 313/1990 e n. 343/1993),  fino  ad  arrivare
 alle  significative e piu' recenti decisioni, in materia di ergastolo
 per il minore imputabile e di minimo edittale previsto per il delitto
 di oltraggio (sentt. n. 168/1994 e n. 341/1994), caratterizzate dalla
 espressione piu' significativa dei suddetti principi.
   Cautela  analoga,  pertanto,  deve  mostrare   l'interprete   nella
 valutazione    delle    questioni   prospettate,   rifuggendo   dalle
 "suggestioni" proposte  da  tesi  sostenute  anche  col  conforto  di
 autorevole dottrina.
   In   questo   quadro,  deve  essere  subito  disattesa  l'eccezione
 formulata in relazione all'art. 97, Cost.   A prescindere  dall'ovvia
 considerazione che, per l'interessato che lo reputi opportuno, esiste
 piu'  di  una  ragione  sostanziale per accedere ai riti alternativi,
 evitando lunghi e costosi dibattimenti,  deve,  altresi',  osservarsi
 come tale profilo di costituzionalita', nei termini prospettati dalla
 difesa,  non  risulti  facilmente "spendibile".   Certamente, portato
 alle sue  estreme  conseguenze,  nei  termini  della  prospettazione,
 condurrebbe,  di  fatto, allo svuotamento di significato della tutela
 penale, poiche', rispetto ad un canone di  tipo  economicistico,  non
 solo  la  maggior  parte  delle  fattispecie,  ma lo stesso esercizio
 dell'azione penale, in se'  e  per  se'  considerato,  finirebbe  per
 risultare incoerente.
   Vero  e'  che  detto  parametro  e' stato utilizzato (ma insieme ad
 altri) nell'ambito della  ordinanza  di  rimessione  della  questione
 relativa al minimo edittale previsto dall'art. 341 c.p. e vero e' che
 la  Corte  costituzionale non lo ha formalmente disatteso (in realta'
 considerandolo assorbito in altri profili meritevoli di accoglimento,
 cfr. sent. n. 341/1994).  Ma la stessa Corte,  in  una  pronuncia  di
 poco  precedente,  ebbe  espressamente  a  negare  l'applicazione del
 canone ex art. 97 della  Costituzione  all'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale,  pur  affermandone l'operativita' anche in relazione
 al settore "giustizia", nel suo complesso, ma solo  con  riguardo  al
 momento organizzativo dei relativi uffici (cfr.  sent. n. 376/1993).
   Maggiori  problemi  pone l'ulteriore profilo di esame, cioe' quello
 della  "razionalita'  intrinseca"   del   meccanismo   sanzionatorio,
 caratterizzato   da  un  minimo  edittale  elevato  (mesi  dodici  di
 reclusione e L. 400.000 di multa) e da una pena accessoria  di  tutto
 rilievo  (interdizione dall'esercizio della professione sanitaria per
 periodo non inferiore a due anni).   In linea  teorica,  prescindendo
 cioe' dalla materiale articolazione della fattispecie incriminatrice,
 la  pena,  in  se'  e  per  se' considerata, non puo' essere ritenuta
 conforme o non conforme al dettato Costituzionale, per il fatto della
 sua particolare asprezza.
   Si tratta certamente di  un  meccanismo  sanzionatorio  di  estremo
 rigore, ma che puo' essere giustificabile in relazione ai "valori" in
 gioco.
   Del  resto,  nel  nostro  ordinamento,  non  e'  certo  una novita'
 l'utilizzo  di  sanzioni  con   minimo   edittale   significativo   e
 significativa  pena  accessoria  in  settori  delicati come quello in
 esame, basti pensare a fattispecie analoghe, quanto ad omogeneita' di
 valori (tutela della salute pubblica) e ad analogia di strutturazione
 formale (reati di pericolo), certamente caratterizzati da "minimi" di
 tutto rilievo (dai sei mesi di reclusione e L. 200.000 di  multa  per
 il  commercio e la somministrazione di medicinali guasti, ex art. 443
 c.p., ai tre anni di reclusione per la adulterazione e contraffazione
 di sostanze medicinali, ex art. 440, comma 3, c.p.).
   Ma il caso in esame  presenta  una  particolarita',  non  da  poco,
 rispetto  alle  fattispecie  del  codice  penale  indicate: mentre in
 queste, infatti, la condotta e' omogenea e  si  caratterizza  per  la
 immediata  e  diretta  messa in pericolo del bene primario oggetto di
 tutela, nell'ambito della  fattispecie  di  cui  all'art.  17,  legge
 107/1990  sono astrattamente riconducibili le piu' svariate condotte,
 il cui disvalore puo' anche essere manifestamente disomogeneo.
   In astratto, questa volta prescindendo dal  sistema  sanzionatorio,
 una   fattispecie   di   tal   genere  non  e'  certo,  di  per  se',
 incostituzionale, per il solo fatto della sua strutturazione formale.
   Evidentemente,  rispetto  alla  finalita'  di  tutela  di  un  bene
 primario,  e' stata fatta una scelta ben precisa dal legislatore, col
 sistema della "normazione sintetica" e  il  conseguente  rinvio,  per
 l'integrazione   sotto   il   profilo   puramente  tecnico,  a  fonti
 secondarie, tradottasi nell'utilizzo di una fattispecie molto  ampia,
 strutturata  come  reato di pura condotta e di pericolo presunto, con
 titolo di imputazione soggettiva limitato al dolo.
   Non  e'  stata,  infatti,  prevista alcuna ipotesi colposa, pur non
 sussistendo alcuna ragione logica per escluderla (basti pensare  alla
 fattispecie  affine  di  cui  all'art.  443 c.p., punita, ex art. 452
 c.p., anche a titolo di colpa),  in un settore, tra l'altro,  in  cui
 competenza   professionale   e  rispetto  di  doverose  cautele  sono
 assolutamente
  determinanti.
   Il  rilievo  dei  valori  meritevoli  di   tutela,   dunque,   puo'
 giustificare   e,   in   effetti,   giustifica   un   meccanismo   di
 incriminazione "a cascata", in cui  non  vengono  censurate  solo  le
 condotte  astrattamente dirette a porre in pericolo immediato il bene
 oggetto di protezione, ma  anche  tutti  quei  comportamenti  che  si
 traducano  nella  mera  violazione delle prescrizioni imposte (che si
 riferiscono, nel caso di specie, a riserva di  competenza,  modalita'
 operative,  rigorosa  documentazione  dell'iter attinente a sangue ed
 emocomponenti).
   Il problema e', dunque, quello  di  valutare  il  riflesso  che  il
 sistema  sanzionatorio previsto dalla legge viene ad avere su simile,
 particolare meccanismo di incriminazione.
   L'esame dell'articolata fattispecie di cui all'art.  17,  legge  n.
 107/1990  evienzia  il  possibile  rilievo  di  una  ampia  gamma  di
 condotte, penalmente illecite, di portata estremamente differenziata.
   In una scala ideale di pregiudizio ai valori tutelati,  al  vertice
 sta certamente il fatto di chi, violando la legge, ed agendo per fine
 di profitto, pone in essere condotte immediatamente pericolose per la
 salute  della  collettivita'  (il caso tipico del c.d. "commercio del
 sangue").
   Alla base, il fatto di chi, senza agire a fini di  profitto,  viola
 la  legge  ponendo  in  essere  comportamenti  in cui il connotato di
 rischio e' minimo o, di fatto, inesistente.
   In questo secondo ambito si inquadrano i fatti in contestazione nel
 procedimento penale a quo.
   Ovviamente impregiudicato il merito del procedimento, il  fatto  di
 cui  al  capo  a)  della rubrica integra certamente una significativa
 violazione di legge, pero' con minimo pericolo per il  bene  tutelato
 (trattandosi,  pur  sempre,  di  autodonazione  effettiva - il sangue
 cioe' non e' stato ceduto a terzi - e praticata  nell'ambito  di  una
 struttura  sanitaria,  da personale qualificato, con gli accertamenti
 del caso).
   Il fatto di cui  al  capo  b)  della  rubrica  appare  ancora  piu'
 marginale, nella sua portata.
   E',  infatti,  in  contestazione, ad uno degli imputati, tra i vari
 episodi in  continuazione,  il  fatto  di  non  avere  restituito  al
 servizio   trasfusionale  talune  unita'  di  sangue  provenienti  da
 autodonazione,  provvedendo  autonomamente  al  loro  smaltimento   e
 omettendo le correlative annotazioni.
   Non  viene contestato, dunque, il fine del profitto, ne' l'utilizzo
 "pericoloso"  delle  unita'  raccolte  (eventualmente  conservate  in
 reparto  col  rischio  di  successiva  reinfusione  a terzi, o peggio
 direttamente reinfuse a terzi, o  ancora,  cedute  all'esterno  della
 struttura),  ma  il diretto e autonomo smaltimento (quindi, comunque,
 la distruzione) di emazie frutto di autodonazione, non utilizzate  e,
 quindi, pur sempre destinate alla eliminazione, sia pure attraverso i
 canali istituzionali.
   La  portata  di  tale violazione e' notevolmente inferiore a quella
 evidenziata al capo  a)  della  rubrica;  e',  inoltre,  estremamente
 diversa   rispetto   ad   altre   condotte   illecite   astrattamente
 ipotizzabili (dalla omissione dei test  di  compatibilita'  alla  non
 corretta  conservazione  degli  emocomponenti,  fino  ad  arrivare al
 "commercio del sangue" vero e proprio).
   In questo quadro, il meccanismo sanzionatorio previsto dalla  legge
 non   consente  alcuna  graduazione  di  pena,  ne'  principale,  ne'
 accessoria, essendo il minimo rigidamente predeterminato (mesi dodici
 di reclusione e L.  400.000  di  multa,  interdizione  dall'esercizio
 della professione sanitaria per periodo non inferiore a due anni).
   Vi  e',  dunque, una evidente parificazione, sotto il profilo della
 sanzione globalmente considerata, di situazioni diverse, addirittura,
 considerando la vasta gamma delle condotte  astrattamente  possibili,
 di situazioni estremamente differenziate, sia sul piano dell'elemento
 psicologico, sia sul piano oggettivo, non giustificabile col richiamo
 al  valore ultimo oggetto di tutela (in taluni casi, neppure messo in
 pericolo).
   Da  tutto  cio'  discende,   necessariamente,   il   dubbio   sulla
 razionalita' del sistema sanzionatorio, in rapporto all'art. 3, primo
 comma, Cost.
   Detto sistema, caratterizzato da predeterminazione di minimi rigidi
 ed elevati, sia a livello di pena principale che accessoria, a fronte
 di  fatti  di portata marginale, pone poi ulteriori dubbi di coerenza
 della norma in esame con l'art.  3,  primo  comma,  Cost.,  sotto  il
 diverso profilo del rispetto del canone di proporzionalita'.
   Non vi e', infatti, dubbio che la pena, secondo Costituzione, debba
 essere proporzionata al disvalore dell'illecito.
   La  portata  pratica  di  detto  principio consente di sindacare e,
 quindi, di censurare, tutte  quelle  "incriminazioni  che,  anche  se
 presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
 prevenzione, producono, attraverso la pena, danni  all'individuo  (ai
 suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa', sproporzionatamente
 maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
 tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (cosi'
 ex sent.  n. 409/1989).
   In presenza di fatti di minimo  rilievo  offensivo,  non  puo'  non
 porsi  il  dubbio  che  il  sacrificio  di diritti fondamentali della
 persona (quali la liberta' personale, ex art. 13, Cost.,  il  diritto
 al  lavoro,  ex  art.  4,  Cost.), nei termini previsti dall'art. 17,
 legge n. 107/1990, sia palesemente e irragionevolmente sproporzionato
 rispetto alle finalita' di tutela perseguite.
   Tale considerazione non puo', poi, non riflettersi su altro profilo
 di costituzionalita' ravvisabile nella normativa in esame,  cioe'  il
 rispetto  della  funzione  rieducativa  della pena, ex art. 27, terzo
 comma, Cost., canone non limitato esclusivamente alla fase esecutiva,
 ma direttamente  operante  gia'  a  livello  di  astratta  previsione
 normativa  del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso (cfr., tra
 le altre, sent. n. 341/1994).
   In  presenza  di  fatti  di  minor  entita',  (spesso  anche   mere
 violazioni  formali,  astrattamente ipotizzabili ex art. 17, comma 1,
 legge n.   107/1990 e art. 1 e  segg.  d.m.  27  dicembre  1990,  non
 assistite dal fine del profitto e prive di diretta incidenza sul bene
 della salute), e' difficile ricollegare una funzione rieducativa alla
 reclusione  per mesi dodici e alla interdizione professionale per due
 anni.
   In  questo  quadro,  in  presenza di una fattispecie incriminatrice
 come  quella  descritta,  il   regime   sanzionatorio   "conforme   a
 Costituzione"     dovrebbe    necessariamente    prescindere    dalla
 predeterminazione di un minimo rigido ed elevato, sia  a  livello  di
 pena  principale che di pena accessoria, onde consentire una corretta
 graduazione  della  sanzione  eventualmente  applicata,  che  risulti
 adeguata alle fattispecie estremamente differenziate che, di volta in
 volta,  possono  venire  in  rilievo  (nel  caso  di  specie, i fatti
 contestati ai capi a e b della rubrica, gia' diversi tra loro  quanto
 a   rilevanza  penale  ed  entrambi,  comunque,  non  particolarmente
 significativi quanto a offesa e messa  in  pericolo  degli  interessi
 sostanziali che la legge in esame mira a tutelare).
   Sulla  base  di tali considerazioni, deve ritenersi rilevante e non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art.  17,  legge  n. 107/1990, nella sua parte sanzionatoria, in
 relazione agli artt. 3, primo comma e 27,  terzo  comma,  Cost.,  con
 conseguente  sospensione  del  procedimento e trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale.